venerdì 25 settembre 2015

Perchè We Feed The Planet?

Nel nostro mondo Slow Food da un po' di tempo non si parla d'altro che di We Feed The Planet e la domanda più frequente che abbiamo ricevuto è stata: di cosa si tratta? 
Abbiamo quindi deciso di spiegarvelo brevemente in questo post.
Se dovessimo scegliere tre parole con le  quali definire l'evento queste sarebbero: consapevolezza, sfida, futuro.
WFTP nasce dalla consapevolezza che in un'esposizione universale, Expo 2015, dedicata al cibo, non possono mancare gli agricoltori che ogni giorno producono il 70% del cibo mondiale! e invece sembra proprio essere così! Questa consapevolezza ci ha portato a chiamare 2500 agricoltori da tutto il mondo per far vedere che un'altra expo è possibile, che esiste un'altra fetta di cibo che non deriva solo dalle multinazionali o dalle industrie, ma bensì dalla terra.
Tutto questo è stato sicuramente una sfida, vissuta tutti i giorni e ogni giorno con maggiore intensità, guardando il tempo che scorreva troppo velocemente e il 3 ottobre che si avvicinava sempre più. 
Un gruppo di 10 ragazzi, giovani, sotto i 31 anno hanno preso in mano la consapevolezza e l'hanno trasformata in realtà, rimboccandosi le maniche e organizzando tutto quello che ci aspetta dal 3 al 6 ottobre a Milano, ma ora tutto è stato fatto, è tutto pronto, 2500 persone stanno per arrivare a Milano e possiamo dire che questi 10 ragazzi la sfida l'hanno vinta!
Poi arriva la parte più difficile: il futuro!
Dare una speranza al futuro del cibo non è facile, vuol dire prendere in considerazione fattori mutabili e incerti, vuol dire tener conto di un intero mondo che si differenzia già a scala locale, ma vuol dire soprattutto avere responsabilità sul futuro della vita umana. 
Il cibo non è un diritto qualsiasi, è il diritto alla vita! 
e insieme possiamo difenderlo e rendere la situazione mondiale e agroalimentare migliore e positiva per noi e per la Terra che stiamo distruggendo.
e poi, chi lo sa cosa potrà nascere dall'unione di 2500 menti provenienti da tutto il mondo?
Ora passiamo alle cose più pratiche: cosa succede al We Feed The Planet.
Durante la manifestazione sarà possibile partecipare a momenti di discussione e di riflessione suddivisi in diversi argomenti, assistere alle disco-soep e a momenti ludici. Ogni delegato potrà decidere a cosa e quanti convegni partecipare, mettersi in gioco e conoscere gente.
Per il programma completo clicca qui
la manifestazione è aperta a tutti il 3 ottobre, mentre gli altri giorni è riservata ai soli delegati.
il 6 ottobre vi aspettiamo all'interno di Expo per presentare i risultati emersi in quattro giorni di lavoro!
allora, vi abbiamo convinto?
Contribuisci anche tu all'evento con una piccola donazione: sostieni We Feed The Planet
Oppure metti a disposizione un posto letto per un agricoltore:alloggio
Vi aggiorneremo sulla nostra pagina facebook slow food rete giovane valli orobiche sulle novità legate all'evento.
Seguiteci su twitter @SlowFoodRGVO per rimanere aggiornato in tempo reale su quello che sta avvenendo all'evento! o cerca l'#ValliOrobichealWFTP!


mercoledì 23 settembre 2015

Ricetta Presidio #9: Casoncelli con rape rosse e fatulì

Casoncelli con rape rosse e fatulì

Ingredienti

Per l'impasto: 
Semola 250 g, rimacinato
Farina 100 g, 0
Uova 100 g+ 50 g di tuorli
Acqua 50 ml
Olio Un cucchiaio
Curcuma Punta di un cucchiaio


Per il ripieno:
Pane 200 g, tritato 
Aglio 1/2 spicchio 
Burro 40 g, tritato 
Grana 150 g, grattugiato 
Fatulì 150 g, grattugiato con crosta
Uova 170 g
Rapa rossa 150 g, lessata e frullata
Mostarda 1/2 cucchiaio tagliata finemente 
 
Per il condimento:
Burro 25g
Pancetta 15g
Mostarda 1/2 cucchiaio
Rapa Rossa cruda e affettata q.b.
Erba cipollina q.b. 

Procedimento:

Impasto
Mescolare gli ingredienti e lavorare la pasta per circa 15 minuti, lasciare riposare per almeno mezz’ora avvolta nella pellicola o in un panno umido.
Ripieno
Preparare in un contenitore il pane trito con aglio e prezzemolo, soffriggere il burro in un padellino e versarlo sugli altri ingredienti.
Mescolare bene e aggiungere i formaggi, le uova, la crema di rapa rossa e la mostarda.
Amalgamare tutto e lasciare riposare in frigorifero per circa 30 minuti.
Lavorare la pasta tirandola molto fine, tagliare la sfoglia ogni circa 12 cm e mettere il ripieno al centro, dare la classica forma a caramella.
Condimento
Cuocere in abbondante acqua salata per circa 1 minuto ( se appena fatti).
Saltare in una padella con poca acqua di cottura, burro, pancetta rosolata a parte e mezzo cucchiaio di mostarda sminuzzata, rapa cruda affettata, erba cipollina.

fonte:http://www.finedininglovers.it/ricette/primi-piatti/casoncelli-bresciani-ricetta-con-rape-rosse/

lunedì 21 settembre 2015

Lait de nulle part : operazione verità sull’origine dei prodotti lattiero caseari - Osterie d’Italia 2016: ecco l’introduzione in anteprima - In 270 mila spengono le 10 candeline di Cheese

Lait de nulle part : operazione verità sull’origine dei prodotti lattiero caseari


Da dove viene il cibo che portiamo in tavola? Da queste parti ce lo chiediamo spesso e per fortuna non siamo i soli.
Con la campagna Lait de nulle part (Latte senza provenienza) l’associazione dei Jeunes Agriculteurs ci invita a pretendere l’indicazione d’origine in etichetta del latte utilizzato nei prodotti caseari. E vuole far pressione sul governo. 
«Saremo i vostri occhi nei supermercati, i vostri portavoce su internet. Vi aiuteremo a scegliere formaggi e prodotti caseari: studieremo le confezioni e attaccheremo uno sticker per differenziare le buone pratiche di etichettatura da quelle cattive»
Ecco come presentano la loro campagna su Facebook (andate a vedervi la pagina qui )
Esigiamo l’etichettatura d’origine del latte usato nei prodotti caseari! Jeunes Agriculteurs stanno lavorando per rendere obbligatoria l’indicazione di origine in etichetta. Président, Caprice des Dieux, Babybel… dietro questi grandi marchi c’è troppa opacità. Grandi gruppi alimentari cercano di confondere il consumatore usando connotazioni francesi (come per esempio Rustique e Bresse bleu) ma non dichiarano l’origine del latte. Il fatto è che per i consumatori è fondamentale capire l’origine dei prodotti: ben l’84% dei cittadini europei hanno rivendicato l’importanza dell’indicazione d’origine proprio dei prodotti lattiero caseari.
A oggi, tutte le derrate di origine animale (prodotti lattiero, carne, piatti cucinati, uova) devono avere un marchio che le identifichi. Ma questo marchio non assicura l’indicazione di origine…
Come ben sapete Slow Food porta avanti da tempo il progetto delle etichette narranti. E come credo ben sappiate proprio oggi è finito Cheese la nostra manifestazione dedicata a tutte le forme del latte Una bellissima festa che abbiamo organizzato per dare visibilità e voce a casari, pastori e artigiani del cibo che a vario titolo e in tutto il mondo lavorano per preservare la biodiversità legata alle produzioni lattiero casearie e che nel fare questo diventano custodi di saperi e tradizioni, paladini della difesa dei propri territori. E naturalmente tutto sempre con l’allegria e l’approccio che ci distingue e che privilegia il piacere legato al cibo e la voglia di approfondire, attraverso le degustazioni e le conferenze, l’incontro con casari e affinatori e le attività per i più piccoli.


Osterie d’Italia 2016: ecco l’introduzione in anteprima

L’attesa è terminata: oggi 21 settembre, d
urante l’ultima giornata di Cheese 2015, Slow Food Editore presenta Osterie d’Italia 2016: 1707 locali recensiti, dei quali oltre 140 novità. L’appuntamento per conoscere tutti i premiati è in piazza caduti per la Libertà a Bra alle 10.30. Per darvi un piccolo assaggio, sotto trovate l’introduzione alla guida, uno stuzzichino di benvenuto, insomma, ma non perdete l’intero menù. Ricco come sempre, forse di più.
«Da trent’anni Slow Food educa, promuovendo e tutelando il cibo buono, pulito e giusto. Tra le innumerevoli attività intraprese, la guida Osterie d’Italia è tra quelle di più lungo corso e ogni anno ridefinisce un pezzetto di ciò che nel nostro Paese è il “mangiarbere”, proponendovi il più completo e autorevole catalogo della cucina di tradizione e di territorio. Le osterie, per come le abbiamo intese nel tempo, si sono evolute, sono cambiate, sono diventate progressivamente un qualcosa di distante dalla definizione della parola che trovate ancora sul dizionario. Per questo scrivere la guida è impresa sempre più ardua, ma la difficoltà non fa che accrescere l’entusiasmo di chi la realizza. Non si tratta più, infatti, solo di andare a scovare i luoghi più autentici, spesso nascosti e protetti da piccoli paesi di campagna o da qualche stretto vicolo di città. Si tratta piuttosto – nella maggior parte dei casi – di districarsi nella miriade di locali che si autodefiniscono osteria o che a quel modello aspirano. Il compito è quindi cogliere in quali casi i tratti che Slow Food ha attribuito all’osteria siano effettivamente presenti e in quali, invece, siano solo una carta da parati che nasconde crepe e cartongesso.
Il successo della guida negli anni ha promosso un nuovo modello, ora largamente condiviso, e questa diffusione non ha evitato, ma semmai favorito, il proliferare di locali e approcci per cui i caratteri dell’osteria si sono confusi e “imbastarditi”. Ma quali sono questi tratti? Certamente la cucina, alla quale chiediamo di essere buona, tradizionale, capace di raccontare il contesto in cui viene proposta e preparata con materie prime (quando possibile) locali e prodotte in modo sostenibile. Poi il prezzo, che deve però tenere conto della variabilità territoriale e dei costi di ingredienti ineccepibili, in molti casi sempre più alti. Infine l’accoglienza, che di tutti è probabilmente il carattere più fortemente distintivo dell’osteria. Accoglienza che vogliamo calda e familiare, capace di narrare i prodotti e i piatti senza essere didattica o ingessata, ma soprattutto autentica, come solo quella di chi fa un lavoro così duro con passione può essere. Ed è quando questi elementi raggiungono l’equilibrio che ci troviamo di fronte alla Chiocciola. Questo simbolo per noi così importante segnala, infatti, i locali dove, oltre a mangiare bene, si “sta bene”. Dove l’esperienza della tavola risulta piacevole in ogni suo aspetto e dove davvero si può cogliere il territorio che si ha intorno. Deve essere come assaggiare direttamente il contesto, la cultura, la biodiversità, il paesaggio, il luogo in cui ci si trova, con un’indimenticabile esperienza multisensoriale.
Creare, e poi trovare: questo non è semplice, richiede la conoscenza profonda della diversità naturale e culturale di un Paese complesso come l’Italia. Sarebbe impossibile riuscirci senza affidarsi alla rete di Slow Food e ai collaboratori presenti in tutti i territori, che continuamente verificano, segnalano, scoprono i locali che trovate nelle pagine che seguono. Per darvi ancora più informazioni e per rendere la guida ancora più utile, tra i simboli, a partire da quest’anno trovate anche la chiave, che indica le osterie che offrono qualche stanza per il pernottamento. Un ulteriore elemento per tenere la guida sempre con voi in borsa, nella portiera della macchina o in tasca grazie all’App. Perché un compagno di viaggio come Osterie d’Italia è difficile da incontrare. Nessun’altro la può costruire con queste caratteristiche e garanzie, e nessun’altra guida, nonostante le imitazioni, può sostenere con ragionevole certezza che, in ogni luogo d’Italia in cui vi troverete, vi metterà a disposizione almeno un indirizzo per farvi capire – nel tempo di un pasto – esattamente dove siete, non soltanto dal punto di vista gastronomico. Buon divertimento.»


 In 270 mila spengono le 10 candeline di Cheese
Non c’è dubbio, quella di Cheese è una formula che funziona! La manifestazione internazionale si è aperta agli oltre 270 mila visitatori (il 10% in più rispetto all’edizione dei record del 2013, secondo le stime delle forze dell’ordine locali), accogliendoli tra le vie e le piazze di Bra. Decine le occasioni per conoscere le migliori produzioni casearie di oltre 300 espositori da 23 nazioni e per partecipare alle attività di approfondimento e intrattenimento, sotto la guida della parola chiave che contraddistingue tutti gli eventi targati Slow Food: il piacere legato al cibo, che è gusto e conoscenza.
Forti i messaggi politici lanciati durante questa decima edizione, come il NO del settore lattiero-caseario di qualità al latte in polvere per produrre formaggi. La petizione lanciata da Slow Food a sostegno della legge italiana 138 dell’11 aprile 1974, che l’Unione europea ci chiede di abrogare entro il 29 settembre, ha raccolto l’adesione di 150 mila persone sulla piattaforma Change.org e attraverso i moduli cartacei. Importante il messaggio del vice ministro alle politiche agricole alimentari e forestali Andrea Olivero che, inaugurando la manifestazione, ha assicurato la difesa a oltranza della legge da parte Governo italiano.
Riflessioni tra tecnici ed esperti del settore e appelli alle istituzioni da parte dei produttori e dei loro rappresentanti sono stati lanciati durante i tanti momenti di approfondimento. Tra i temi al centro del dibattito la fertilità dei suoli, minacciata non solo dalla cementificazione ma anche da una produzione agricola troppo intensiva che non lascia ai terreni il tempo di rigenerarsi. Un allarme lanciato dalla Confédération Paysanne riguarda il rischio di “gigantismo” che sta affliggendo le stalle, e non solo Oltralpe: allevamenti intensivi che non guardano di sicuro al benessere dell’animale né tantomeno alla qualità del latte che, anzi, diventa un sottoprodotto quando obiettivo del profitto sono i liquami per la produzione di biogas… E poi le quote latte, pensate per tutelare i piccoli produttori, disincentivando la produzione al di sopra di un limite fissato per legge, si sono rivelate uno strumento distorsivo del mercato e sono state abolite senza un vero passaggio, con il rischio di mettere in ginocchio i produttori di piccola scala se non si pensa a una regolamentazione più efficace.
Chiudiamo questa decima edizione di Cheese lanciando anche segnali di speranza per un futuro più roseo, in un anno in cui le difficoltà e le sfide per il settore sono state particolarmente sentite da malgari e casari. Arrivano dai tanti giovani che il pubblico ha incontrato nei Laboratori del Gusto e tra gli espositori del Mercato mentre raccontano con orgoglio il frutto del lavoro negli alpeggi e nei caseifici artigianali, di chi ha deciso di tornare in montagna non per ripiego ma per una scelta convinta.
A fare la differenza, in un mercato in cui paradossalmente le grandi aziende vogliono abbattere i prezzi per fare profitto, mentre gli artigiani devono tenerli più alti per poter sopravvivere, siamo tutti noi consumatori. Via libera allora alle attività di educazione al gusto con oltre 1000 partecipanti, tra alunni delle scuole e bambini accompagnati dai genitori, che hanno vestito i panni dell’allevatore per qualche ora. Tra gli appuntamenti sono stati particolarmente apprezzati quelli dedicati ai bambini sordi che, grazie alla collaborazione con l’Ente Nazionale Sordi, sono stati tradotti nella Lingua dei Segni. Anche nella nuovissima Casa Slow Food, lo spazio associativo della Chiocciola, vecchi e nuovi soci hanno allenato le papille in una serie di laboratori per imparare a distinguere le caratteristiche organolettiche dei formaggi artigianali da quelli industriali. Non solo gusto ma anche conoscenza dicevamo, e allora cosa c’è di meglio di un buon libro? Pare in tanti l’abbiano pensata così grazie alle pubblicazioni proposte da Slow Food Editore, tra cui le novità appena presentate come Bambini a tavola! e Osterie d’Italia 2016 e i volumi dedicati agli appassionati del settore, la guida Formaggi d’Italia e il manuale Il Gusto del formaggio.
E a sentire i pareri degli espositori, tutti contenti per l’apprezzamento dei loro capolavori caseari e non solo, pare proprio che i visitatori di Cheese abbiano capito il valore che ha il cibo fatto con impegno e fatica, con il cuore e la responsabilità di chi guarda non tanto alle proprie tasche ma piuttosto al futuro di questo nostro pianeta. Non si ferma il lavoro di Slow Food in difesa della Biodiversità, e così, accanto ai 57 Presìdi italiani e stranieri e ai tanti prodotti dell’Arca presenti, si aggiungono altri formaggi che casari e soci italiani e stranieri hanno consegnato alle cure della Fondazione Slow Food per Biodiversità, affinché possano salire sull’Arca del Gusto ed essere catalogati come prodotti da salvare.
Se anche quest’anno Cheese ha dimostrato di saper suscitare l’attenzione dell’opinione pubblica, delle istituzioni e dei protagonisti dell’agroalimentare internazionale è anche grazie alle tante aziende che hanno sempre sostenuto il lavoro di chi crede in una produzione agroalimentare di qualità, come gli Official Partner della manifestazione Consorzio Parmigiano Reggiano, Lurisia, Pastificio Di Martino, Radeberger Gruppe Italia.
Ma soprattutto il ringraziamento va alla Città di Bra e ai suoi cittadini, che come sempre si sono dimostrati ospitali nei confronti di espositori e visitatori ed entusiasti per il clima di grande festa, e ai tanti volontari che durante l’anno si impegnano nelle Condotte Slow Food del territorio e che durante gli eventi ci aiutano a raccontare con la loro testimonianza cosa fa Slow Food ogni giorno.


venerdì 18 settembre 2015

Presidio #9: Fatulì della Val Saviore

Fatulì della Val Saviore
DOVE: La Val Saviore, ci troviamo nel territorio della Valle Camonica, è la valle laterale più vasta del Parco dell’Adamello. Molto interessante dal punto di vista naturalistico, si estende dalle zone di fondovalle di Cedegolo e Berzo Demo fino alle vette alpine del ghiacciaio e del monte Adamello e qui, seguendo ancora metodi di produzione tradizionale si produce un formaggio storico: il fatulì.

COME: Il fatulì, che in dialetto significa “piccolo pezzo”, è un caprino molto particolare e raro, realizzato ancora da alcuni casari con il latte crudo proveniente da una razza originaria di queste zone, la capra bionda dell’Adamello.
L’area di origine e di diffusione di questa razza autoctona alpina è da sempre rappresentata dal massiccio dell’Adamello (in particolare della Valle di Saviore) e dalla Valle Canonica, di taglia medio-grande, la capra bionda dell’Adamello ha corpo robusto, agile e scattante e il mantello di tonalità variabile dal marrone chiaro al biondo. Il pelo sul ventre è bianco e si estende dal torace alla coda, fino alla parte interna delle cosce. Sulla testa l’animale presenta due caratteristiche striature bianche che si estendono dall’attacco delle orecchie al muso. Questa razza, che in passato era presente in modo molto più consistente, ha subito negli anni un rimescolamento genetico spesso legato alla scarsa attenzione che per anni ha caratterizzato l’allevamento caprino in alta montagna, perdendo quindi in parte le proprie caratteristiche e peculiarità. Negli ultimi anni però con il riconoscimento del rischio di estinzione, sono stati avviati vari progetti di recupero e di salvaguardia che hanno determinato un’inversione di tendenza significativa.  
La produzione di Fatulì tradizionale è strettamente legata all’utilizzo del latte di capra bionda e prevede che questo venga lavorato una volta al giorno. Dopo la mungitura viene riscaldato ad una temperatura di circa 34°C-37°C dopodichè si aggiunge il caglio. Dopo un breve riposo di circa 40 minuti, la cagliata che si è formata viene progressivamente e manualmente rotta con il caratteristico attrezzo, lo spino, fino a raggiungere le dimensione di un grano di mais, quindi viene riscaldato nuovamente e rimescolato per qualche minuto. Terminata la cottura la massa è sollevata e posta nelle fascere per permettere al siero di sgrondare e poter così procedere alla successiva fase della salatura. Le fascere hanno diametro di 10-14 centimetri e l’altezza delle forme è circa 4-6 centimetri con un peso complessivo che può variare dai 300 ai 500 grammi.Una volta effettuata la salatura il fatulì è pronto per essere affumicato, tradizionalmente bruciando rami e bacche di ginepro e con tempi e modalità che però possono variare più o meno leggermente da produttore a produttore, quindi si può procedere con la stagionatura che si protrae di solito per un periodo variabile da uno a 6 mesi.

CARATTERISTICHE: La forma tipica è cilindrica con le facce piane, la crosta risulta più o meno scura a seconda dell’affumicatura e presenta i caratteristici solchi lasciati dalla grata sulla quale il formaggio viene depositato in questa fase. La pasta ,dalla consistenza elastica, si presenta poi di un bel colore che varia dal giallo paglierino al giallo intenso e generalmente risulta essere compatta o caratterizzata da una piccola occhiatura, i profumi sono intensi netti, dalle evidenti note affumicate ma anche da sentori erbacei e di frutta secca, lungo e corrispondente il gusto.

STAGIONALITA': Il periodo di produzione va da primavera a fine autunno.

PRODUTTORI:
Giovanni Guani
Cevo (Bs)
via Merano, 5
tel. 0364 638057
334 7006970
giovanni.guani@alice.it

Le Frise di Luigi Martini
Artogne (Bs)
località Rive dei Balti, 12
tel. 0364 598298
338 8897811
info@lefrise.it
www.lefrise.it

Caterina Evaristina Maffeis
Cedegolo (Bs)
località Grevo
via Torchio, 37
tel. 340 3214783

Federico Maffeis
Cevo (Bs)
località Pozzuolo, 1
tel. 0364 634659
328 1012384
329 9353127
Alpeggio Malga Adamè
(2017 m. slm) comune di Cedegolo nel
Parco Regionale dell'Adamello

Paros di Manenti Manuel
Angolo Terme (Bs)
località Parosso, 8
tel. 348 7657872
az.paros@yahoo.it

Prestello di Barbara Bontempi
Prestine (Bs)
via Prestello
tel. 0364 300834
349 3645047
agricola.prestello@tiscali.it
Alpeggio Malga Arcina
nel comune di Bienno

Il Parco dell'Adamello organizza visite presso le malghe del Presidio, per maggiori informazioni visitare il sito
www.parcoadamello.it oppure scrivere a info@parcoadamello.it

lunedì 14 settembre 2015

Approvata in via definitiva la legge sull'agricoltura sociale - Un referendum in difesa dei mari italiani - Oltre la birra

Approvata in via definitiva la legge sull'agricoltura sociale


L’Italia ha finalmente una legge sull’agricoltura sociale. Ce lo fa sapere il Mipaaf con un comunicato datato ormai 5 agosto, ma, complice l’estate e le vacanze questa notizia (almeno per noi) non ha avuto la giusta rilevanza. E allora ci fa piacere riprenderla.
L’agricoltura sociale in Italia conta 400 cooperative sociali (su un totale nazionale di 14.000), impegnate in attività produttive lungo tutta la filiera del settore agricolo, dalla coltivazione, all’industria alimentare, al commercio. Sono coinvolti 4.000 lavoratori dipendenti su tutto il territorio nazionale (su 320.000 totali), e un valore della produzione di 200 milioni di euro (dati For.Agri www.foragri.com).
La legge introduce e ben chiarisce la definizione di agricoltura sociale, indicando nello specifico quali attività ne sono comprese. Ovvero:
L’inserimento socio-lavorativo di lavoratori con disabilità e lavoratori svantaggiati, persone svantaggiate e minori in età lavorativa inseriti in progetti di riabilitazione sociale; prestazioni e attività sociali e di servizio per le comunità locali attraverso l’uso di risorse materiali e immateriali dell’agricoltura;
prestazioni e servizi terapeutici anche attraverso l’ausilio di animali e la coltivazione delle piante;
iniziative di educazione ambientale e alimentare, salvaguardia della biodiversità animale, anche attraverso l’organizzazione di fattorie sociali e didattiche;
Per quanto riguarda le indicazioni alle realtà e istituzioni regionali e locali: le Regioni, nell’ambito dei Piani di Sviluppo Rurale, possono promuovere specifici programmi per la multifunzionalità delle imprese agricole, con particolare riguardo alle pratiche di progettazione integrata territoriale e allo sviluppo dell’agricoltura sociale. Inoltre, le istituzioni pubbliche che gestiscono mense scolastiche e ospedaliere possono inserire come criteri di priorità per l’assegnazione delle gare di fornitura la provenienza dei prodotti agroalimentari da operatori di agricoltura sociale.
I Comuni devono prevedere specifiche misure di valorizzazione dei prodotti provenienti dall’agricoltura sociale nel commercio su aree pubbliche.
Gli enti pubblici territoriali devono prevedere criteri di priorità per favorire lo sviluppo delle attività di agricoltura sociale nell’ambito delle procedure di alienazione e locazione dei terreni pubblici agricoli.
La norma prevede inoltre che gli operatori sociali possano vedersi in concessione, a titolo gratuito, i beni immobili confiscati alla criminalità organizzata.
Infine, viene istituito l’Osservatorio sull’agricoltura sociale (nominato con decreto del Mipaaf) con mansioni di monitoraggio e il compito di definire le linee guida in materia di agricoltura sociale.
Per poter apprezzare tutti i benefici bisogna attendere le istituzioni locali che dovranno comprendere, recepire e adattare ai propri bisogni gli strumenti forniti da questa nuova legge. Ma certamente siamo di fronte a una buona partenza.


Un referendum in difesa dei mari italiani


C’è anche Slow Food tra le centinaia di associazioni e personalità del mondo accademico, culturale, sociale, politico e artistico che si sono unite alla lettera inviata lo scorso mercoledì 2 settembre dal Coordinamento Nazionale No Triv: un appello per chiedere alle Regioni italiane di deliberare urgentemente una richiesta di referendum abrogativo per tutelare i mari italiani da progetti minerari e petroliferi che sembrano non tenere conto dello stato di salute dei nostri ecosistemi marini.
La posta in gioco è altissima: i numerosi procedimenti per progetti petroliferi, sbloccati nel 2012 dal Governo Monti e riavviati dall’articolo 35 del Decreto Sviluppo, rischiano di subire una ulteriore accelerazione da parte di alcune norme del cosiddetto “Sblocca Italia”. A essere particolarmente colpite dalle attività di ricerca risulterebbero essere: il Molise (le Isole Tremiti e Termoli), l’Abruzzo (Vasto, San Vito Chietino, Ortona, Francavilla al Mare), soprattutto la Regione Marche (Pedaso, Cupra Marittima, Senigallia, Fano) e la Puglia (in special modo Otranto).
In seguito a questa emergenza il Coordinamento Nazionale No Triv ha organizzato per le ore 11 di venerdì 11 settembre la conferenza stampa intitolata Un referendum in difesa dei mari italiani! presso la Sala stampa della Camera dei Deputati, in Piazza Montecitorio a Roma. L’obiettivo è molto chiaro: la richiesta deve essere deliberata e depositata entro il prossimo 30 settembre da almeno cinque Regioni: questo consentirebbe di evitare la raccolta di 500.000 firme e consentirebbe ai cittadini italiani di andare a votare nella primavera del 2016, abbreviando le tempistiche e limitando per quanto possibile i danni ambientali.


Oltre la birra


Le spezie africane in una delle sue birre preferite, i viaggi, una Cola autentica, prodotta con le noci del Presidio in Sierra Leone, e un progetto futuro: aprire un birrificio in Africa, per realizzare birre legate all’agricoltura di quel continente. Teo Musso, fondatore e anima del Baladin, racconta il suo legame profondo con l’Africa e annuncia la sua iniziativa più recente: sostenere il progetto 10.000 orti in Africa.
Il birrificio Baladin nasce come brewpub nel 1996 a Piozzo, un piccolo paese che si affaccia sulle Langhe, in Piemonte, ad opera del mastrobirraio Teo Musso già proprietario dal 1986 dell’omonimo pub, conosciuto anche per una particolare sala coperta da un tendone da circo. Un arredo non casuale: baladin in francese arcaico significa cantastorie e l’idea di questo locale unico nasce proprio da un circo itinerante francese e nello specifico dal suo fondatore François Bidon, grande amico di Teo Musso. Teo viene identificato come uno dei “papà” del movimento birrario artigianale in Italia e suo “porta bandiera” nel mondo. Oggi, pur avendo aperto locali in tutto il mondo, non ha dimenticato il rispetto della qualità delle materie prime e l’importanza dell’artigianalità. Inevitabile quindi, l’incontro con Slow Food e la condivisione di un percorso comune, che conta ormai numerose tappe: dagli eventi (Salone del Gusto e Terra Madre, Cheese) al Master della birra alla realizzazione della Cola Baladin (bevanda naturale ottenuta dalle noci di Cola del Presidio Slow Food della Sierra Leone).
«Devo molto a Slow Food e all’amico Carlin», ci racconta Teo. «La storia del mio birrificio si è intrecciata più volte con le iniziative culturali di Slow Food.  [...]
«Quando ho iniziato a distribuire la mia birra “fuori dai confini di Piozzo”, ho acquistato una guida Slow Food per selezionare i ristoranti cui inviare i campioni, partendo dal presupposto che, essendo delle eccellenze selezionate da un soggetto autorevole e no profit, fossero aperte a nuove esperienze gastro-culturali, proprio come quella che stavo proponendo. Oggi il rapporto con Slow Food è più strutturato ma l’obiettivo è sempre lo stesso: fare cultura. Abbiamo prodotto una Cola con un Presidio africano di cui siamo molto orgogliosi e sosteniamo iniziative anche grazie al riscontro positivo che gli appassionati di Baladin riservano alle nostre proposte. Inoltre è stata realizzata una serie limitata di bottiglie etichettate “We Feed The Planet” vendute durante un nostro evento (Baladin Open Fest Torino) con lo scopo di contribuire a sostenere questa splendida iniziativa. Anche noi siamo agricoltori, forse più avvantaggiati di altri, ma condividiamo lo spirito guida: l’amore per la Terra».

Ora Baladin ha scelto di sostenere anche uno dei progetti più ambiziosi di Slow Food, la realizzazione di 10.000 orti in Africa. Il suo contributo sarà destinato a quattro orti, due in Sudafrica (orti comunitari di Mawisa e Mvuleni) e due in Marocco (orti scolastici Anasr Ain Aouda e di Iben Zaydoun, a Skhirat).

«Produco in Italia perché credo nell’Italia e nel frutto della sua Terra», continua Teo «Sono però legato all’Africa dall’amore per quel Continente, in cui sono stato più e più volte. La mia compagna è africana e una delle birre che più amo è prodotta con spezie che ricordano i profumi intensi del Marocco. Ho in progetto, in un futuro prossimo, di impegnarmi a realizzare un Baladin Africa, un birrificio che nascerà non per produrre le birre che conoscete ma per farne di nuove, dedicate all’Africa e possibilmente alla sua agricoltura».
«Sostenere i 10.000 orti in Africa è un passaggio fondamentale in un percorso di crescita personale e di consapevolezza della mia azienda. Con la Cola abbiamo voluto far conoscere cosa sta dietro alla versione autentica della bevanda più globalizzata al mondo, qual è il frutto da cui prende il nome e dove nasce. Da qui la scelta di azzardare la colorazione amaranto, insolita per una bevanda che siamo soliti vedere di tutt’altro colore. Gli orti, invece, sono prima di tutto una soddisfazione personale ma spero, in un’ottica futura, possano essere l’inizio di una collaborazione attiva, utile a far crescere il lavoro dei contadini impegnati nel progetto».

giovedì 10 settembre 2015

Le giovani ricette #34: Muffin al cacao e fichi

Muffin al cacao e fichi

Ingredienti:

250g farina
120g zucchero
70g burro
15g cacao amaro
2 uova
140ml latte
1 bustina lievito
4 fichi

Procedimento:

Versate tutti gli ingredienti insieme in una ciotola tranne il lievito e fichi.
Lavorate con un frullatore fino ad ottenere una crema soffice e morbida.
Aggiungete il lievito e mescolate.
Versate il composto nei pirottini.
Lavate e tagliate i fichi a spicchi  senza sbucciarli.
Decorate i muffin con i fichi tagliati, poggiando alcuni pezzi su ognuno, alcuni li lascerete in superficie, altri li infilerete un po’ più a fondo.

Poggiate i pirottini sulla leccarda, infornate a 180° per 20/25 minuti circa, i tempi possono variare, valutate in base al vostro forno.

Buon appetito!

lunedì 7 settembre 2015

<< Tutti noi siamo sacri. La Terra è sacra. E' la nostra madre. Per questo rispettiamo la natura >> - Il segreto della vera pizza napoletana - Disco fruit

<< Tutti noi siamo sacri. La Terra è sacra. E' la nostra madre. Per questo rispettiamo la natura >>

Vogliamo ritornare oggi sulla Giornata Mondiale di preghiera per la cura del Creato, istituita da Papa Francesco a luglio scorso come attuazione dell’Enciclica Laudato sì. Un messaggio per la difesa del pianeta, la casa di tutti che noi vogliamo rilanciare ancora una volta e oggi lo facciamo con le parole di Carlo Petrini. Vi proponiamo quindi un estratto da Cibo e Libertà (Slow Food Editore, Giunti Editore, Bra 2013). Sono gli Indigeni a parlarci, e vi assicuriamo che da loro arriva l’esempio massimo di cura della nostra Terra Madre. 

«Su 10.000 specie vegetali adatte all’alimentazione umana, se ne commercializzano 150. E se queste 150 specie contribuiscono col 60% dell’alimentazione dell’uomo, le altre 9.850 specie che fine fanno? Sono il cibo delle popolazioni indigene. Allora penso che il problema della sovranità alimentare sia prima di tutto un problema d’identità alimentare». La frase pronunciata dal mio amico José Esquinas-Alcazar – direttore del ceHap (Cátedra de Estudios sobre Hambre y Pobreza dell’Università di Cordoba) e per trent’anni nei ranghi della fao a difendere la biodiversità – è quella che più mi ha colpito all’interno di un convegno dedicato a “Popoli indigeni e sovranità alimentare locale”, tenutosi durante l’ultima edizione del Salone del Gusto e Terra Madre del 2012.
È una di quelle frasi perfette, che grazie a poche cifre riesce a chiarire una situazione. In questo caso, l’importanza delle popolazioni indigene nella difesa della biodiversità del mondo: tendiamo infatti a pensare che gli indigeni siano quelli “rimasti indietro”, ma loro impavidamente, contro il silenzio, l’indifferenza, i pregiudizi e le ingiustizie continuano a prendersi cura delle porzioni di terra su cui vivono dalla notte dei tempi, in armonia con il creato di cui hanno una visione cosmogonica sempre affascinante.
Anche nei confronti degli indigeni la sensibilità messa in atto da Slow Food è totale. È stato in seno a Terra Madre che si è sviluppato il dibattito internazionale, ed è lì, nella rete, che queste popolazioni hanno costruito contatti e iniziative per condividere le problematiche e ribadire la loro autodeterminazione. Un tema, quello dell’autodeterminazione, che è stato infine riconosciuto come diritto che essi stessi hanno affermato con la “Dichiarazione universale dei diritti dei popoli indigeni” approvata dall’assemblea generale dell’Onu nel 2007. […] La ricchezza esibita da trenta comunità tribali del nord della Svezia in occasione di un viaggio nel 2010 mi ha impressionato in maniera indelebile. Erano presenti un paio di migliaia di persone, tutte convenute per discutere della loro situazione, per mettere in mostra le loro tradizioni e ricette, per ascoltare chi ha pensato Terra Madre – i loro rappresentanti erano stati a Torino –, un luogo reale e virtuale che evidentemente reputano perfetto per fare da cerniera tra le loro istanze e gli organismi internazionali – o nazionali – che dovrebbero tutelarli. Il loro cibo era meraviglioso, gustoso in maniera più che coinvolgente, vario com’è difficile immaginare. […] Era commovente, come lo sono stati gli incontri con gli indigeni brasiliani, gli australiani, gli africani, i nordamericani. Mi hanno sempre regalato qualcosa, e dato la netta sensazione che il mondo stia sbagliando approccio.

Gli indigeni sono stati i protagonisti particolari anche a Terra Madre nel 2010, l’edizione del meeting dedicata a loro, quando sei rappresentanti venuti da ciascun continente hanno celebrato l’apertura ufficiale dell’incontro di fronte all’assemblea plenaria di rito, di fronte a tutte le comunità del cibo convenute da oltre 150 Stati. Tra tutti loro, che incantarono la platea con parole e co-stumi tradizionali, voglio ricordare esattamente le parole di Adolfo Timótio Verá Mirim, del popolo Guarani Mbya:
«Ringrazio in primo luogo Nhanderu, nostro Padre Supremo, per avermi permesso di essere qui oggi, qui, in forza e salute. […] E siamo arrivati qui per dire che siamo vivi, che non siamo stati distrutti, che la nostra cultura e il nostro popolo sono ancor oggi in piedi […].
Sono il capo della mia comunità, che si trova nella terra indigena Ribeirão Silveira, nello stato di San Paolo. Sono anche produttore e coordinatore del Presidio Slow Food del Palmito Juçara. Oggi noi Guaraní siamo 40.000 persone che vivono in territori ubicati nelle regioni del Sud, Sud-Est e Centro-Ovest del Brasile, e in Paraguay, Argentina e Bolivia. Questo era il nostro territorio prima che i portoghesi e gli spagnoli arrivassero in Sud America. Non siamo stati noi a creare le frontiere. Ma in Brasile, da dove vengo, esistevano oltre mille popoli e cinque milioni di indigeni. Tutto questo è cambiato con l’invasione. Abbiamo perso i nostri territori, i nostri uomini e le nostre donne sono stati schiavizzati o sono morti, vittime di guerre e malattie a noi sconosciute.
In Brasile, dei mille popoli che vi abitavano, ne rimangono oggi duecentoventicinque. I cinque milioni di abitanti sono stati ridotti a ottocentomila indigeni. 
Con la fine della colonizzazione, abbiamo dovuto continuare a lottare contro i padroni del potere economico e politico per mantenere il diritto a vivere come popoli differenziati […].
Tutti noi siamo esseri sacri. La Terra è sacra. È la nostra madre. Per questo rispettiamo la Natura. Ogni qualvolta prendiamo qualcosa dalla foresta per la nostra sopravvivenza – che sia del legno, un frutto, un animale – chiediamo prima permesso agli spiriti protettori degli esseri che vivono la foresta. Rispettiamo anche il momento più giusto per piantare, per cacciare, per tagliare la legna. Tutti dicono che la Terra è malata. Che le risorse naturali stanno finendo. Parlano del riscaldamento globale che minaccia di distruggere la vita sul pianeta. Sappiamo che le forme di produzione economica che predominano nel mondo sono la principale causa di tutto questo. I nostri sciamani parlavano sempre, nel corso dei loro rituali religiosi, di questa tragedia che oggi colpisce la Terra. Avevano previsto che il Mondo si sarebbe ammalato, che poco a poco sarebbe stato distrutto dall’uomo bianco. Non sarebbe stato Dio a distruggere la Terra.
Dobbiamo unirci per dire al mondo che esistono altri modi di rapportarsi con la natura e tra gli esseri umani. Che possiamo avere accesso alle risorse della Terra senza distruggerla. Che esistono modi più giusti e sostenibili di organizzare le società umane, in cui prevalga la giustizia, l’uguaglianza e il rispetto tra le persone e le diverse culture. Dove le differenze siano accettate e rispettate da tutti».

[…] Per liberare la diversità abbiamo bisogno delle popolazioni indi- gene, della loro ispirazione e del loro bagaglio di saperi in tema di diritto al cibo, sovranità alimentare, salvaguardia della biodiversità, sostenibilità. […] Un vecchio detto dei nativi americani recita: «Insegna ai tuoi figli che la Terra è nostra madre, tutto ciò che accade alla Terra accadrà ai figli della Terra. Se gli uomini sputano in terra, sputano su se stessi. Questo noi sappiamo: la Terra non appartiene all’uomo, ma è l’uomo che appartiene alla Terra. La Terra vale più del denaro e durerà per sempre». Tutta l’umanità è in debito con i popoli indigeni che hanno saputo, nella pratica quotidiana, mantenere vivi questi principi mentre il mondo andava in tutt’altra direzione.

Foto Terra Madre 2006 – © Alberto Peroli

fonte: http://www.slowfood.it/giornata-cura-creato/

Il segreto della vera pizza napoletana

Quante volte abbiamo sentito descrivere gli italiani con lo stereotipo “pizza, pasta e mandolino”?
Certamente questo detto non ci rende onore ma non si può negare che la pizza sia uno degli alimenti più consumati in Italia e più diffusi in tutto il mondo. È, infatti, presente nei cinque continenti in varianti talmente numerose e diversificate da poter soddisfare tutti i gusti e le esigenze.
In ogni caso, la variante riconosciuta come pizza italiana per antonomasia è la “vera pizza napoletana” tutelata dall’Associazione Verace Pizza Napoletana, fondata a Napoli nel 1984. Fa parte di quest’associazione anche Corrado Scaglione, il pizzaiolo dell’Enosteria Lipen di Canonica Lambro (MB), che coordinerà i Laboratori di Pizza a Cheese.

«Non bisogna denigrare le altre ma la pizza napoletana è diversa per molti fattori: – ci dice, da strenuo difensore del suo prodotto – innanzitutto la tradizione, la lunga storia che ha alle spalle che ha portato all’ottima pizza che possiamo gustare oggi. E poi gli ingredienti, che devono essere semplici e locali, e la lavorazione, lunga e senza forzature ma con il rispetto dei tempi naturali».
Gli chiedo di andare più nello specifico e mi racconta i suoi ingredienti con precisione, uno a uno: «farina 00 innanzitutto, che negli ultimi anni è stata demonizzata ma se si usa bene non fa male, è l’industria ad averla rovinata». Poi il lievito, importantissimo: Corrado usa un misto di lievito madre e lievito di birra, uniti per esaltare le loro caratteristiche complementari. Il primo, da un lato, garantisce maggiore digeribilità ma il gusto acido che lo caratterizza può non essere gradito a tutti i palati. Il lievito di birra, dal canto suo, permette un maggiore controllo sulla lievitazione, che meglio si addice alla variabilità delle vendite, e dà un gusto meno rustico alla pizza. Per finire, pomodoro e mozzarella, provenienti entrambi dalla zona dei Monti Lattari, fra Napoli e Salerno: «non mi importa la marca dei prodotti che uso, l’unica cosa fondamentale è la filosofia dei produttori».

La ricerca dei cibi migliori e lo studio dei processi chimici alla base della produzione della pizza sono i due aspetti che differenziano i pizzaioli di nuova generazione da quelli di una volta: «il miglioramento della qualità della pizza e della reputazione dei pizzaioli è dovuto principalmente a questi due aspetti», mi rivela Corrado.
I migliori pizzaioli, infatti, oggi vengono considerati quasi alla stregua dei cuochi, cosa che non succedeva qualche anno fa, quando Corrado ha cominciato. «Tutti i pizzaioli vogliono diventare cuochi ma io ho fatto il percorso inverso. Quando facevo il cuoco spiavo sempre il pizzaiolo per studiare la sua tecnica e quando un giorno ho dovuto sostituirlo ho imparato tutti i segreti del mestiere!».


Disco Fruit  

Tanti GIOVANI, Tanta FRUTTA, una sola RETE

In occasione della nascita ufficiale della Rete Giovane Lombardia abbiamo organizzato la 
DISCO-FRUIT!

Vieni anche tu a creare una grande macedonia a ritmo di musica!

Sabato 12 settembre dalle ore 15.00 all'interno di Dulcinea
Castello visconteo di Legnano (MI)

Balleremo, canteremo e mangeremo tutti insieme!

unisciti a noi! LET'S DANCE

 

giovedì 3 settembre 2015

La sesta estinzione

La sesta estinzione
Le specie animali e vegetali, ma anche i funghi,i microbi e i batteri, stanno scomparendo a un ritmo impressionante, mai registrato nella storia del pianeta: 27.000 specie ogni anno, tre ogni ora.
Ogni anno distruggiamo 10 milioni di ettari di foreste pluviali (nel Borneo, in Amazzonia, in Africa), per far posto a palme da olio e campi di soia.

Le mangrovie e le barriere coralline  habitat di numerose specie e protezione fondamentale per i litorali, si sono già ridotte rispettivamente del 35% e del 20%.

Nel 2007 le api mellifere – impollinatrici di gran parte dei vegetali che mangiamo – hanno cominciato a morire in massa. In Europa, le morie si sono attestate intorno al 20%, mentre negli Stati Uniti, nell’inverno del 2013/2014, hanno superato il 40%.

Uno studio condotto nel 2011 da ricercatori dell’Università di Exeter ha previsto la scomparsa di una specie su 10 entro la fine del secolo: si è innescata quella che chiamano sesta estinzione di massa. Con la quinta – 65 milioni di anni fa – si erano estinti i dinosauri.
Ma c’è una differenza sostanziale tra l’estinzione presente e quelle del passato. Il responsabile di questa crisi ecologica globale è l’uomo.
In 70 anni abbiamo distrutto i tre quarti dell’agrobiodiversità che i contadini avevano selezionato nei 10.000 anni precedenti.
L’equilibrio si è rotto quando abbiamo iniziato a gestire le fattorie come industrie. L’industria non tollera i tempi della natura, non ha stagioni né pazienza. Deve produrre sempre, tanto, velocemente e nel modo più efficiente possibile. Deve produrre in serie. 

L’agricoltura industriale è nata in America dopo la seconda guerra mondiale, per riconvertire l’industria bellica. Il nitrato di ammonio, principale ingrediente degli esplosivi, era infatti anche un’ottima materia prima per produrre fertilizzanti. Prima di allora si arricchivano i terreni grazie alla rotazione con le leguminose (fagioli, fave, piselli) e al letame degli animali. Ma da quel momento, abbiamo iniziato a comprare fertilizzanti, pesticidi, diserbanti, carburanti per le macchine.
Abbiamo iniziato a cibarci di petrolio.

Poche multinazionali hanno preso il controllo del nostro cibo, brevettando semi ibridi, fertilizzanti, pesticidi e diserbanti, imponendo le loro regole al mercato. Le prime tre (Monsanto, DuPont Pioneer e Syngenta) detengono oggi il 53% del mercato globale dei semi e le prime 10 controllano il 76%.
Il cerchio si è chiuso con i semi geneticamente modificati, tappa estrema di questo percorso. Dai 1,7 milioni di ettari coltivati a ogm nel 1996 si è passati a 175,2 milioni di ettari nel 2013.

Gli oceani hanno una storia simile. Le flotte industriali sono diventate sempre più numerose, potenti ed efficienti, grazie a tecnologie avanzatissime. Oggi usano sonar, aerei e piattaforme satellitari per individuare i banchi di pesci e spesso raschiano i fondali con enormi reti a strascico, distruggendo tutto ciò che si trova lungo il loro percorso. La pesca industriale produce sprechi enormi: più del 40% del pescato è rigettato in mare. Nell’acqua si riversano fertilizzanti, pesticidi, rifiuti, petrolio... La plastica forma ormai gi gantesche discariche galleggianti. Infine, la concentrazione di CO2 aumenta l’acidità degli oceani, compromettendo la catena alimentare marina.