<< Tutti noi siamo sacri. La Terra è sacra. E' la nostra madre. Per questo rispettiamo la natura >>
Vogliamo ritornare oggi sulla Giornata Mondiale di preghiera per la
cura del Creato, istituita da Papa Francesco a luglio scorso come
attuazione dell’Enciclica Laudato sì. Un
messaggio per la difesa del pianeta, la casa di tutti che noi vogliamo
rilanciare ancora una volta e oggi lo facciamo con le parole di Carlo
Petrini. Vi proponiamo quindi un estratto da Cibo e Libertà
(Slow Food Editore, Giunti Editore, Bra 2013). Sono gli Indigeni a
parlarci, e vi assicuriamo che da loro arriva l’esempio massimo di cura
della nostra Terra Madre.
«Su 10.000 specie vegetali adatte all’alimentazione umana, se ne
commercializzano 150. E se queste 150 specie contribuiscono col 60%
dell’alimentazione dell’uomo, le altre 9.850 specie che fine fanno? Sono
il cibo delle popolazioni indigene. Allora penso che il problema della
sovranità alimentare sia prima di tutto un problema d’identità
alimentare». La frase pronunciata dal mio amico José Esquinas-Alcazar –
direttore del ceHap (Cátedra de Estudios sobre Hambre y Pobreza
dell’Università di Cordoba) e per trent’anni nei ranghi della fao a
difendere la biodiversità – è quella che più mi ha colpito all’interno
di un convegno dedicato a “Popoli indigeni e sovranità alimentare
locale”, tenutosi durante l’ultima edizione del Salone del Gusto e Terra
Madre del 2012.
È una di quelle frasi perfette, che grazie a poche cifre riesce a
chiarire una situazione. In questo caso, l’importanza delle popolazioni
indigene nella difesa della biodiversità del mondo: tendiamo infatti a
pensare che gli indigeni siano quelli “rimasti indietro”, ma loro
impavidamente, contro il silenzio, l’indifferenza, i pregiudizi e le
ingiustizie continuano a prendersi cura delle porzioni di terra su cui
vivono dalla notte dei tempi, in armonia con il creato di cui hanno una
visione cosmogonica sempre affascinante.
Anche nei confronti degli indigeni la sensibilità messa in atto da
Slow Food è totale. È stato in seno a Terra Madre che si è sviluppato il
dibattito internazionale, ed è lì, nella rete, che queste popolazioni
hanno costruito contatti e iniziative per condividere le problematiche e
ribadire la loro autodeterminazione. Un tema, quello
dell’autodeterminazione, che è stato infine riconosciuto come diritto
che essi stessi hanno affermato con la “Dichiarazione universale dei
diritti dei popoli indigeni” approvata dall’assemblea generale dell’Onu
nel 2007. […] La ricchezza esibita da trenta comunità tribali del nord
della Svezia in occasione di un viaggio nel 2010 mi ha impressionato in
maniera indelebile. Erano presenti un paio di migliaia di persone, tutte
convenute per discutere della loro situazione, per mettere in mostra le
loro tradizioni e ricette, per ascoltare chi ha pensato Terra Madre – i
loro rappresentanti erano stati a Torino –, un luogo reale e virtuale
che evidentemente reputano perfetto per fare da cerniera tra le loro
istanze e gli organismi internazionali – o nazionali – che dovrebbero
tutelarli. Il loro cibo era meraviglioso, gustoso in maniera più che
coinvolgente, vario com’è difficile immaginare. […] Era commovente, come
lo sono stati gli incontri con gli indigeni brasiliani, gli
australiani, gli africani, i nordamericani. Mi hanno sempre regalato
qualcosa, e dato la netta sensazione che il mondo stia sbagliando
approccio.
Gli indigeni sono stati i protagonisti particolari anche a Terra
Madre nel 2010, l’edizione del meeting dedicata a loro, quando sei
rappresentanti venuti da ciascun continente hanno celebrato l’apertura
ufficiale dell’incontro di fronte all’assemblea plenaria di rito, di
fronte a tutte le comunità del cibo convenute da oltre 150 Stati. Tra
tutti loro, che incantarono la platea con parole e co-stumi
tradizionali, voglio ricordare esattamente le parole di Adolfo Timótio
Verá Mirim, del popolo Guarani Mbya:
«Ringrazio in primo luogo Nhanderu, nostro Padre Supremo, per avermi
permesso di essere qui oggi, qui, in forza e salute. […] E siamo
arrivati qui per dire che siamo vivi, che non siamo stati distrutti, che
la nostra cultura e il nostro popolo sono ancor oggi in piedi […].
Sono il capo della mia comunità, che si trova nella terra indigena
Ribeirão Silveira, nello stato di San Paolo. Sono anche produttore e
coordinatore del Presidio Slow Food del Palmito Juçara. Oggi noi Guaraní
siamo 40.000 persone che vivono in territori ubicati nelle regioni del
Sud, Sud-Est e Centro-Ovest del Brasile, e in Paraguay, Argentina e
Bolivia. Questo era il nostro territorio prima che i portoghesi e gli
spagnoli arrivassero in Sud America. Non siamo stati noi a creare le
frontiere. Ma in Brasile, da dove vengo, esistevano oltre mille popoli e
cinque milioni di indigeni. Tutto questo è cambiato con l’invasione.
Abbiamo perso i nostri territori, i nostri uomini e le nostre donne sono
stati schiavizzati o sono morti, vittime di guerre e malattie a noi
sconosciute.
In Brasile, dei mille popoli che vi abitavano, ne rimangono oggi
duecentoventicinque. I cinque milioni di abitanti sono stati ridotti a
ottocentomila indigeni.
Con la fine della colonizzazione, abbiamo
dovuto continuare a lottare contro i padroni del potere economico e
politico per mantenere il diritto a vivere come popoli differenziati
[…].
Tutti noi siamo esseri sacri. La Terra è sacra. È la nostra madre.
Per questo rispettiamo la Natura. Ogni qualvolta prendiamo qualcosa
dalla foresta per la nostra sopravvivenza – che sia del legno, un
frutto, un animale – chiediamo prima permesso agli spiriti protettori
degli esseri che vivono la foresta. Rispettiamo anche il momento più
giusto per piantare, per cacciare, per tagliare la legna. Tutti dicono
che la Terra è malata. Che le risorse naturali stanno finendo. Parlano
del riscaldamento globale che minaccia di distruggere la vita sul
pianeta. Sappiamo che le forme di produzione economica che predominano
nel mondo sono la principale causa di tutto questo. I nostri sciamani
parlavano sempre, nel corso dei loro rituali religiosi, di questa
tragedia che oggi colpisce la Terra. Avevano previsto che il Mondo si
sarebbe ammalato, che poco a poco sarebbe stato distrutto dall’uomo
bianco. Non sarebbe stato Dio a distruggere la Terra.
Dobbiamo unirci per dire al mondo che esistono altri modi di
rapportarsi con la natura e tra gli esseri umani. Che possiamo avere
accesso alle risorse della Terra senza distruggerla. Che esistono modi
più giusti e sostenibili di organizzare le società umane, in cui
prevalga la giustizia, l’uguaglianza e il rispetto tra le persone e le
diverse culture. Dove le differenze siano accettate e rispettate da
tutti».
[…] Per liberare la diversità abbiamo bisogno delle popolazioni indi-
gene, della loro ispirazione e del loro bagaglio di saperi in tema di
diritto al cibo, sovranità alimentare, salvaguardia della biodiversità,
sostenibilità. […] Un vecchio detto dei nativi americani recita:
«Insegna ai tuoi figli che la Terra è nostra madre, tutto ciò che accade
alla Terra accadrà ai figli della Terra. Se gli uomini sputano in
terra, sputano su se stessi. Questo noi sappiamo: la Terra non
appartiene all’uomo, ma è l’uomo che appartiene alla Terra. La Terra
vale più del denaro e durerà per sempre». Tutta l’umanità è in debito
con i popoli indigeni che hanno saputo, nella pratica quotidiana,
mantenere vivi questi principi mentre il mondo andava in tutt’altra
direzione.
Foto Terra Madre 2006 – © Alberto Peroli
fonte: http://www.slowfood.it/giornata-cura-creato/
Il segreto della vera pizza napoletana
Quante volte abbiamo sentito descrivere gli italiani con lo stereotipo “pizza, pasta e mandolino”?
Certamente questo detto non ci rende
onore ma non si può negare che la pizza sia uno degli alimenti più
consumati in Italia e più diffusi in tutto il mondo. È, infatti,
presente nei cinque continenti in varianti talmente numerose e diversificate da poter soddisfare tutti i gusti e le esigenze.
In ogni caso, la variante riconosciuta
come pizza italiana per antonomasia è la “vera pizza napoletana”
tutelata dall’Associazione Verace Pizza Napoletana, fondata a Napoli nel
1984. Fa parte di quest’associazione anche Corrado Scaglione, il
pizzaiolo dell’Enosteria Lipen di Canonica Lambro (MB), che coordinerà i
Laboratori di Pizza a Cheese.
«Non bisogna denigrare le altre ma la
pizza napoletana è diversa per molti fattori: – ci dice, da strenuo
difensore del suo prodotto – innanzitutto la tradizione, la lunga storia
che ha alle spalle che ha portato all’ottima pizza che possiamo gustare
oggi. E poi gli ingredienti, che devono essere semplici e locali, e la
lavorazione, lunga e senza forzature ma con il rispetto dei tempi
naturali».
Gli chiedo di andare più nello specifico e mi racconta i suoi ingredienti con precisione, uno a uno: «farina 00
innanzitutto, che negli ultimi anni è stata demonizzata ma se si usa
bene non fa male, è l’industria ad averla rovinata». Poi il lievito,
importantissimo: Corrado usa un misto di lievito madre e lievito di
birra, uniti per esaltare le loro caratteristiche complementari. Il
primo, da un lato, garantisce maggiore digeribilità ma il gusto acido
che lo caratterizza può non essere gradito a tutti i palati. Il lievito
di birra, dal canto suo, permette un maggiore controllo sulla
lievitazione, che meglio si addice alla variabilità delle vendite, e dà
un gusto meno rustico alla pizza. Per finire, pomodoro e mozzarella,
provenienti entrambi dalla zona dei Monti Lattari, fra Napoli e Salerno:
«non mi importa la marca dei prodotti che uso, l’unica cosa
fondamentale è la filosofia dei produttori».
La ricerca dei cibi migliori e lo studio
dei processi chimici alla base della produzione della pizza sono i due
aspetti che differenziano i pizzaioli di nuova generazione da quelli di
una volta: «il miglioramento della qualità della pizza e della
reputazione dei pizzaioli è dovuto principalmente a questi due aspetti»,
mi rivela Corrado.
I migliori pizzaioli, infatti, oggi
vengono considerati quasi alla stregua dei cuochi, cosa che non
succedeva qualche anno fa, quando Corrado ha cominciato. «Tutti i
pizzaioli vogliono diventare cuochi ma io ho fatto il percorso inverso.
Quando facevo il cuoco spiavo sempre il pizzaiolo per studiare la sua
tecnica e quando un giorno ho dovuto sostituirlo ho imparato tutti i
segreti del mestiere!».
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