Addio alle “quote latte”. E adesso?
Dal primo aprile va in pensione la
misura di contingentamento della produzione di latte istituita dall’Europa dal
1984 con lo scopo di equilibrare il mercato e stabilizzare i prezzi. In tutti
questi anni il mercato lattiero caseario comunitario è stato tenuto sotto
controllo evitando eccessive produzioni con soglie annue da non superare,
prevedendo in caso contrario penali piuttosto salate a carico di ogni
produttore trovato nell’irregolarità. Riportiamo il commento di Carlo Petrini
uscito ieri su La
Repubblica e a seguire un approfondimento molto dettagliato
sulle prospettive future.
Nel 1984 Carl Lewis replicava le
gesta di Jesse Owens vincendo quattro ori alle Olimpiadi di Los Angeles,
disertate dai sovietici per ripicca, dopo il boicottaggio statunitense a quelle
di Mosca del 1980. C’era ancora (eccome!) la guerra fredda e in Europa la Cee era ancora formata da soli
dieci Paesi. Sempre nel 1984 per l’agricoltura continentale arrivò la
rivoluzione delle quote latte: dopo vent’anni di sostegno diretto al prezzo del
latte (il cosiddetto aiuto accoppiato: più producevi, più la Cee ti premiava con
un’integrazione al prezzo), per garantire continuità a quel modello di aiuti,
l’Organizzazione Comune del Mercato imponeva un limite alla libertà
imprenditoriale con l’obiettivo al contempo di far crescere e migliorare il
sistema dell’allevamento europeo.
Abbiamo visto tutti i risultati
dell’aiuto diretto e delle quote: stalle mediamente sempre meno numerose e più
grandi; razze bovine da mungitura progressivamente ridotte a pochi tipi, con la Frisona a farla da padrone
in tutti gli areali dove l’allevamento da latte persisteva; diffusione a tutte
le latitudini europee di un modello intensivo di conduzione dell’azienda
lattiera, basata sui cosidetti unifeed (generalmente, insilati mescolati a
fieno o paglia), arricchiti con svariate altre materie prime (dalla soia ai
semi di lino, dai semi di cotone ad alcuni residui di lavorazioni alimentari),
che avevano lo scopo di eliminare le differenze nel gusto del latte derivate
dai cambi di stagione e dalle diverse dislocazioni territoriali degli
allevamenti. Quando ero bambino, ricordo perfettamente che il latte raccolto
nella stalla dove si mungeva (poco) latte da alcune bovine di razza piemontese,
cambiava nettamente sapore quando gli animali passavano dall’erba fresca al
fieno, perché l’inverno era arrivato, per poi tornare a dare al bianco liquido
un’autentica esplosione di sapore e profumi quando, come in questi giorni, i
prati tornavano a verdeggiare e a punteggiarsi di fiori.
Oggi, martedì 31 marzo, il sistema
che ha governato il settore lattiero europeo per più di trent’anni terminerà:
le quote andranno in pensione. Ma il futuro non sarà un ritorno al latte che
profuma a seconda della stagione, molto più probabilmente sarà un tempo di
rimpianti, invidie e gesti eclatanti.
Il sistema era nato per dare
all’Europa autosufficienza alimentare e per questo, ormai da oltre
cinquant’anni, i prezzi di cereali e latte, in primis, sono stati tenuti alti
dall’artificiale supporto del denaro pubblico: quell’iniezione di risorse
doveva spingere gli allevatori a produrre abbastanza per tutti gli europei e
doveva assicurare loro un tenore di vita adeguato. Nei fatti, il sistema ha
invece spinto a una crescita produttiva ben oltre le necessità interne,
impossibile da assorbire per il mercato mondiale in una logica di libero
scambio (sia per ragioni strutturali, poiché latte e derivati non si conservano
a lungo; sia per ragioni politiche, poiché tutti i paesi sviluppati tendono a
proteggere il proprio comparto lattiero caseario), rivelandosi profondamente
contraddittorio.
Da decenni l’Ue spende per ritirare
dal mercato ingenti quantità di burro e latte in polvere, allo scopo di tenere
prezzi alti (la forma più moderna di aiuto diretto) e così facendo spinge il
sistema di allevamento a produrre sempre di più, generando il bisogno di
ulteriori acquisti di derrate, per scongiurare il crollo dei prezzi. Il
classico cane che si morde la coda. Con la fine delle quote latte, questo
sistema diventerà impensabile nelle forme che ha avuto fino ad ora e il
mercato, si sostiene, troverà una propria regolamentazione autonoma. Il che è
certamente vero, ma è una formulazione che trascura sempre di tenere in debito
conto le vittime del processo di “autoregolamentazione”.
Gli allevatori che escono dal
regime delle quote, infatti, sono stati (da due generazioni, non da ieri)
abituati a pensare in termini quantitativi e poco altro. Hanno avuto per
decenni un modello di qualità ad uso e consumo dell’industria lattiero casearia
che ne ha livellato capacità e specificità. Soprattutto, se penso a quelli
italiani, il loro savoir faire è stato compromesso per far loro produrre lo
stesso latte che si può produrre (con costi infinitamente più bassi) in
Germania, in Boemia o in Ungheria. La qualità del latte italiano, che
storicamente era una qualità generata dalla diversità, il prodotto di territori
molto differenti e di decine di razze bovine con attitudini lattifere ben
individuate, è stata abbandonata a vantaggio di una qualità dei numeri: grassi
oltre una certa percentuale, proteine oltre una certa percentuale e cellule
somatiche al di sotto di una certa percentuale.
Ma è chiaro che quel sistema ha
livellato la produzione, ha reso facile il compito di chi quel latte doveva
lavorarlo e trasformarlo, ma ha tolto un vantaggio competitivo importante al
Paese. Chi ha avallato quel sistema oltre trent’anni fa, oggi non dovrebbe
stracciarsi le vesti o fare picchetti contro le cisterne che arrivano
dall’estero: dovrebbe chiedersi se la sua fu politica per gli agricoltori o
un’insipiente accondiscendenza nei confronti di interessi forti, nazionali ed
europei. La risposta, finalmente ci siamo, è che il nostro latte, reso anonimo
da decenni, tra pochi giorni si ritroverà a competere in un sistema di “libero
mercato” con un latte identico che arriva in Italia a 10 centesimi in meno, al
litro, dall’Est.
Il recupero di un’identità delle
produzioni nazionali, la possibilità verificata di indicare il luogo di
produzione, ma anche e soprattutto di dare conto al consumatore sulla dieta
delle bovine, sul fatto che esse siano trattate secondo i più avanzati standard
del benessere animale, così come il recupero di filiere di latte locali da
razze autoctone, sono le chiavi per ricostruire il valore del latte italiano.
C’è molto da fare, a partire dalla redistribuzione del reddito lungo la filiera
(per ogni brick di latte venduto, l’allevatore non incassa che il 25-30% del
prezzo) e dalla restituzione di anima e prestigio ai grandi formaggi italiani
che sessantacinque anni dopo la carta di Stresa che per prima li tutelò,
soffrono da tempo di un processo di trasformazione in commodity che ne deprime
il prezzo e sopratutto ne brucia il valore agli occhi dei consumatori. Tutte le
piccole produzioni, sia di latte sia di formaggi dalla lunga storia e dai gusti
indimenticabili, che hanno resistito nonostante le difficoltà e il loro essere
state in qualche modo anacronistiche rispetto al sistema dominante per decenni,
sono un esempio da seguire e un insieme di micro-modelli locali da imitare e
ridiffondere in ogni territorio. Si tratta di una grande sfida per il Ministro
delle Politche Agricole e Forestali nell’anno di Expo, ma dal suo esito
dipendono conseguenze molto più durature, per l’intera agricoltura italiana, di
quelle che potranno scaturire dai luccicanti padiglioni di Rho.
Se avanzo mangiatemi! Comieco e
Slow Food contro lo spreco alimentare
Quello della riduzione del cibo
sprecato è uno dei temi più importanti per la nostra associazione. Se tutti,
infatti, ci impegnassimo a ridurre il volume di cibo che ogni giorno viene
gettato nella spazzatura, l’impatto sarebbe molto forte. Non buttare nulla e
abituarsi anche quando si è fuori casa a chiedere di poter riutilizzare, magari
portandolo via con sé, ciò che si è avanzato è una pratica molto comune
all’estero, ma ancora troppo poco diffusa da noi. L’iniziativa di Comieco, Se avanzo
mangiatemi ha come obiettivo proprio quello di incentivare l’utilizzo di
contenitori per portarsi a casa il cibo o il vino che avanza dai nostri pranzi
al ristorante o in osteria. Per svilupparla Comieco si è rivolta ad alcuni dei
più importanti professionisti italiani nel campo del design e
dell’illustrazione, chiedendo loro di disegnare un contenitore per il vino e
uno per il cibo. Il risultato sono 5 contenitori più simili a oggetti d’arte o
di moda che non a un contenitore per gli avanzi. Il motivo di uno sforzo così
importante è semplice: trasformare una richiesta spesso considerata
imbarazzante in un gesto naturale e che porti a ottenere un oggetto prezioso e
bello.
A guidare la squadra dei designer
Francesco Faccin, Giulio Iaccheti, Matteo Ragni e Chiara Moreschi e degli
illustratori Beppe Giacobbe, Guido Scarabottolo e Olimpia Zagnoli sono stati
Michele De Lucchi e Andrea Kerbaker.
Anche noi di Slow Food abbiamo
fatto la nostra parte con grande entusiasmo, segnalando e coinvolgendo un
gruppo di 75 tra ristoranti e osterie lombarde che a partire da aprile potranno
mettere i loro avanzi in questi splendidi oggetti.
Per saperne di più: www.comieco.org
Piccole rivoluzioni gastronomiche:
a Madrid l’autentica cucina giapponese
L’arte dei giovani aspiranti cuochi
giapponesi che viaggiano per l’Europa per studiare e conoscere la buona cucina
del Vecchio Continente è, senza dubbio, uno dei trend più visibili per chi
osserva il continente con l’occhio del gastronomo. I giovani si portano dietro
dal paese del Sol Levante l’assoluta dedizione alla tecnica e la precisione
ineguagliabile nel realizzare lavorazioni e preparazioni di ogni tipo. Non è
raro trovare in Giappone ristoranti di cucina italiana o francese di assoluta
perfezione, più raro trovare in Europa ristoranti giapponesi di ottimo livello
in grado di uscire dagli stereotipi di sushi, sashimi o tempura.
Fortunatamente la scelta si sta
allargando, e la Spagna
è certamente in prima linea in questa piccola rivoluzione gastronomica. Le
grandi città iberiche stanno vedendo crescere l’offerta in questo senso, e
costituiscono sempre più un polo attrattivo per giovani creativi orientali che
sono capaci di unirsi con omologhi europei per creare esperienze uniche. In
particolare, parlando di Madrid, voglio presentare un locale che, pur
rispettando tecniche e lavorazioni del Sol Levante, presenta una cucina molto
interessante e soprattutto sensibile verso le materie prime del territorio: è
il ristorante Kabuki Wellington, che si trova a due passi dal polmone verde di
Madrid, il parco del Buen Retiro.
Qui l’attenzione alle materie prime
porta il concetto di cucina asiatica un passo più avanti, perché si basa
interamente su ingredienti spagnoli. È quindi inevitabile che certi cavalli di
battaglia nipponici debbano adattarsi alla differenza delle materie prime, ma
questo adattamento anziché togliere aggiunge. Già, perché la cucina è da sempre
nella storia figlia del miscuglio e del meticciato, e i ristoranti etnici in
giro per il mondo non hanno senso se chiusi nella rivendicazione di
un’autenticità intoccabile e assoluta. Perché fare cucina etnica vuol dire
anzitutto aguzzare l’ingegno e mettere tecniche e preparazioni tradizionali
tipiche di un’area del mondo in contatto con la realtà culturale e agricola del
paese che accoglie, per cercare di mantenere fermi i capisaldi gastronomici
senza arroccarsi in un conservatorismo insensato. Ed ecco il miracolo del
Kabuki Wellington, capace esattamente di fare questo. Basti citare il sashimi
di toro per rendere l’idea dello spirito del posto.
Non solo Madrid è testimone di
questa tendenza. Anche a Barcellona, da sempre capitale del fermento
gastronomico iberico insieme a Bilbao, la tendenza è in atto e non sembra
intenzionata a rallentare. Mi piace ricordare qui il Koy Shunka, che all’ombra
della cattedrale offre una grande cucina giapponese ibridata con influenze
spagnole.
La rivoluzione gastronomica passa anche e soprattutto dal meticciato.
Calle de Velázquez 6, 28001 Madrid
www.restaurantekabuki.com
Ristorante Koy Shunka
Calle Copons 7, 08002 Barcellona
www.koyshunka.com
fonte: http://www.slowfood.it/piccole-rivoluzioni-gastronomiche-a-madrid-lautentica-cucina-giapponese/
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