Non mangiamo il pescato degli schiavi
In questi giorni non si legge giornale e non si ascolta un gazzettino che
non riporti brutte, anzi orripilanti notizie. A casa nostra, mentre stiamo
tutti con l’acqua alla gola a barcamenaci per riuscire a mangiare tutti i mesi,
sembra che non si possa spostare un fuscello senza dover pagare un extra a
qualche losco amministratore. E se guardiamo oltre il mare la situazione peggiora:
c’è poco da aggiungere sulla disperazione dei profughi palestinesi del campo di
Yarmuk, alle porte di Damasco. Siamo tutti con il fiato sospeso ad augurarci
che trovino scampo, sollievo, libertà. Ce n’è abbastanza per rigettare altre
informazioni, e ci rendiamo conto che questi avvenimenti siano stimoli più che
sufficienti la vostra sensibilità. Ma ci teniamo a portare alla vostra
attenzione un fatto venuto alla luce qualche giorno fa, perché ci riguarda da
vicino da anche se successo in un altro continente. Ci riferiamo alla tratta di
pescatori ridotti in schiavitù scoperta in Indonesia.
Siamo tutti
complici: noi per primi, con le nostre scelte d’acquisto fomentiamo queste
pratiche barbare e illegali. E quindi sì, ci riguarda. Tutti quanti.
A far venire fuori questa triste storia è stata l’Associated Press con
un’inchiesta, pubblicata a fine marzo e realizzata da Margie Mason e Martha
Mendoza con la collaborazione di Esther Htusan. Le giornaliste hanno
fotografato le condizioni dei pescatori stranieri di Benjina, un paese su
un’isola dell’arcipelago di Aru, dove centinaia di pescatori, in gran parte
provenienti dalla Birmania, erano costretti a lavorare sotto le
angherie di un vigilante con turni di lavoro tra le 20 e le 22 ore alternati da
calci, pugni e frustrate, senza giorni di pausa, con poco cibo e acqua sporca.
Vi è passato l’appetito? Sicuri di voler ancora quei gamberetti di dubbia
provenienza che vi strizzano l’occhio dal mega freezer del supermercato?
Se ancora state pensando di ordinare al take away sotto casa gamberetti alla
piastra di cui non conoscete la provenienza, aggiungo che non ci sono
statistiche sulla mortalità degli schiavi a bordo dei pescherecci, ma dai
racconti dei sopravvissuti si capisce che deve essere piuttosto alta. Un esempio?
Otto uomini considerati a rischio di fuga sono stati rinchiusi in una gabbia di
ferro dove la loro alimentazione consisteva in un pugno di riso e curry al
giorno. Con il tempo, gli agenti che si occupano di trovare i marinai
da inviare sulle imbarcazioni, sono divenuti sempre più spietati e hanno
iniziato ad arruolare anche bambini e disabili, a mentire sugli stipendi e
persino a drogare e rapire gli immigrati che arrivano in Indonesia dai paesi
più poveri dell’Asia. Il prezzo di uno schiavo è di circa mille euro e
una volta reclutati gli schiavi sono obbligati a ripagarlo ai capitani con il
loro lavoro, un’impresa spesso impossibile visto che in genere gli stipendi
arrivano in ritardo o non arrivano affatto.
I pescatori coinvolti sarebbero circa 4000 e arrivano da Cambogia, Laos,
Myanmar e a Thailandia. Più di 350 pescatori, per lo più da Myanmar, sono stati
trasferiti nel fine settimana dall’isola Benjina al largo della costa della
provincia di West Papua, per la loro sicurezza: «Il rischio era che potessero
subire gravi reazioni dopo raccontato la loro condizione» ha dichiarato ai
giornalisti il Ministro indonesiano della Pesca Mas Achmad Santosa:
«Provvederemo al loro rientro in patria». Misna ci informa che il Governo
indonesiano ha annunciato che formerà una squadra speciale per avviare le
indagini. L’impresa sotto accusa è la Pusaka Benjina Resource, l’unica società
di pesca autorizzata dal Governo indonesiano. Dall’inchiesta di Ap ( notizia
confermata da fonti ministeriali) è emerso che in molti casi la società è
soltanto una copertura e spesso i capitani delle imbarcazioni sono thailandesi.
Insomma, forse siamo pedanti, ma nel caso del pesce più che per altri
alimenti è opportuno scegliere pesce locale (è importante anche per
l’ambiente), conoscere i pescatori e se si è lontani dal mare rivolgersi a un
pescivendolo di fiducia. E sinceramente, anche se a poco prezzo, quei
gamberetti asiatici ci sono proprio indigesti. Sicuri che non se ne possa fare
a meno?
Per parlare di pesce buono, pulito e giusto vi diamo appuntamento Genova
dove dal 14 al 17 maggio c’è Slow Fish. Venite, ne scoprirete davvero di buone e di
belle.
Foto: AP Photo/Dita Alangkara
Fonte: http://www.slowfood.it/non-mangiamo-il-pescato-degli-schiavi/
Tracciabilità: nuove garanzie per i consumatori
Rivoluzione nella tracciabilità di maiale, agnello e capretto dopo gli
scandali della carne di maiale tedesca alla diossina venduta in tutta Europa e
degli agnelli ungheresi spacciati per italiani: dal primo aprile entra in
vigore anche nel nostro paese il nuovo regolamento che impone l’indicazione di
origine o di provenienza delle carni fresche, refrigerate o congelate di suini,
ovini, caprini e volatili. Scegliendo la carne con la scritta “origine Italia” potremo
dunque essere certi che tutte le fasi della lavorazione, dalla nascita
all’allevamento fino alla macellazione si siano svolte sul territorio
nazionale. Finalmente si concretizza un percorso iniziato 15 anni fa con
l’obbligo di etichettatura di origine per la carne bovina fresca introdotta
sotto la spinta dell’emergenza “mucca pazza” che impose l’obbligo di indicare,
oltre al luogo di macellazione e allevamento, anche quello di nascita. Dalla
nuova norma restano però escluse la carne di cavallo, quella di coniglio, molto
diffusa in Italia, e la carne di maiale trasformata in salumi. Un dato che non
ci rassicura considerato che due prosciutti su tre sono fatti da maiali
stranieri all’insaputa del consumatore.
Siamo certamente contenti di questo provvedimento che per noi rappresenta un
primo passo verso una maggiore informazione per il consumatore che dovrebbe
avere a disposizione tutti gli strumenti per fare le sue scelte. Ben venga la
segnalazione della provenienza, certo, ma che dire dei metodi produttivi? Ecco
perché proponiamo l’etichetta narrante con informazioni
precise sui produttori, sulle loro aziende, sulle varietà vegetali o le razze
animali impiegate, sulle tecniche di coltivazione, allevamento e lavorazione,
sul benessere animale, sui territori di provenienza… Per
giudicare la qualità di un prodotto, infatti, non bastano analisi chimiche o
fisiche e non è sufficiente neppure la degustazione. Qualunque approccio
tecnico non tiene conto di ciò che sta alle spalle di un prodotto – l’origine,
la storia, la tecnica di trasformazione – e non consente al consumatore di
capire se un cibo è prodotto nel rispetto dell’ambiente e della giustizia
sociale. Inoltre, la comunicazione che accompagna i prodotti spesso è
mistificante: fa riferimento a mondi contadini colmi di poesia, presunte
tecniche tradizionali, vaghi richiami a sapori antichi. Elementi evocativi in
realtà lontanissimi dalle effettive qualità dei prodotti pubblicizzati. Lo
testimoniano gli elenchi di additivi e ingredienti di natura ignota ai più
riportati sulle etichette dei prodotti che riponiamo nei nostri carrelli della
spesa, lontani anni luce dalle immagini e dagli slogan della pubblicità.
I 3 trucchi fondamentali per comprare un vino al
supermercato
Breve premessa: il vino non andrebbe acquistato al supermercato, perché la
scelta sugli scaffali pare fintamente ampia e poi perlopiù vengono propinati
vini industriali la cui unica qualità è quella di presentare un prezzo basso e
forse un packaging carino. Se potete andate alla fonte: comprate le bottiglie
dai produttori, dai vignaioli, conosceteli, visitateli e poi portatevi a casa
le etichette che più vi hanno convinto… Se questo è impossibile, perché avete
un’urgenza e siete rimasti a bocca asciutta, vi consigliamo di
cercare un’enoteca, fatevi amico il gestore e andateci spesso, magari
raccontando i vostri gusti e facendogli capire cosa amate. Ecco, se entrambe le
ipotesi non sono percorribili, per le ragioni che potete sapere solo voi,
allora non vi resta che entrare in un supermercato…
Ora veniamo a voi e al vostro momento di difficoltà. Vi trovate davanti a
uno scaffale di 50 metri di lunghezza e il vostro vignaiolo del cuore qui
proprio non c’é. Strano… prima di darvi ai succhi di frutta (anche quelli nella
gdo non sono proprio una mano santa…) fate un bel respiro e provate a seguire queste
regolate semplici semplici:
1) Il prezzo. Non comprate un vino che costi meno di 5 euro
sullo scaffale. È praticamente impossibile che una bottiglia da 0,75 litri
possa essere pagata di meno ed essere anche buona, o comunque realizzata con
minimi standard di qualità. Fate un calcolo: sotto l’euro al chilo (che poi è
la quantità utile per realizzare una bottiglia) è complicato acquistare delle
uve coltivate con criteri minimali di cura agronomica. Metteteci almeno un
altro euro per coprire i costi di produzione (cantina, macchinari, luce,
manodopera, ecc…); 50 centesimi per vetro, etichetta, tappo. Siamo arrivati a
2,5 €. Un po’ di margine per il commerciante/produttore non vogliamo
calcolarlo???? Infine ricarico della gdo, e l’Iva che conta un bel po’… 22%.
Insomma, sotto i 5 euro allo scaffale comprerete un vino che in una delle fasi
di cui si è parlato sopra è andato decisamente al risparmio. Indovinate quale
sarà? Secondo noi sicuramente l’acquisto dell’uva, o molto più probabilmente
del vino già fatto. Come è possibile? Semplice si sfrutta il lavoro dei
contadini, del vignaiolo o purtroppo la sua disperazione: si passa un mese
prima della vendemmia quando deve liberare le vasche per il nuovo mosto e gli
si dice: “vogliamo farti un piacere, ti svuotiamo la cantina, il prezzo però lo
facciamo noi…”
2) Imbottigliato all’origine da, Prodotto e imbottigliato
da, imbottigliato all’origine dalla cantina sociale. Tutte queste
espressioni possono essere completate dalla dicitura “integralmente
prodotto”, a condizione che il vino sia ottenuto da uve raccolte
esclusivamente in vigneti di pertinenza dell’azienda e vinificate nella
stessa.. Lo sappiamo, questa è una regolata un po’ noiosa, perché obbliga a
guardare solitamente la controetichetta. Però è molto utile perché ci dice se
quel vino è frutto di una filiera controllata da una sola azienda. Uve, vino e
imbottigliamento sono in mano a un’unica cantina. Non sono state vendute a
terzi che poi le hanno trasformate. Di che tipo di garanzia stiamo parlando? Il
vino probabilmente sarà un po’ più buono perché chi si è coltivato le uve, se
le è vinificate e poi ci mette la faccia con tanto di nome e cognome di solito
non vuole fare figuracce troppo grandi. Attenzione
alle sigle incomprensibili. Noi non sceglieremo mai un vino che abbia
questa dizione: imbottigliato da ICQRF con il codice che segue, che è
quello del registro carico e scarico attribuito dall’Ispettorato Centrale
Qualità e Repressione Frodi e deve essere accompagnato (prima o dopo il codice
non fa differenza) da un riferimento allo Stato di appartenenza (IT oppure
ITALIA). Di solito dietro questa sigla ci sono i grandi commercianti
imbottigliatori che realizzano numeri immensi di bottiglie miscelando
partite differenti. In questo caso la qualità è molto difficile da scovare…
3) Fare affidamento su Doc e Docg (Dop), in misura minore
sulle Igt (Igp), scartare i vini senza una di queste tre categorie.
Questo terzo trucco seguitelo solo nella gdo perché fuori potrebbe farvi
commettere degli errori… Sullo scaffale di un supermarket è una garanzia
ulteriore che ci viene data. Sappiamo almeno da dove arrivano le uve e
solitamente per le denominazioni di origine il valore delle stesse è
leggermente più alto. In questo caso però fate attenzione che il vino sia stato
imbottigliato nella zona della Doc e Docg, perché esistono purtroppo delle
eccezioni. Un esempio su tutti: la Doc Sicilia dà la facoltà di
imbottigliamento anche fuori regione. Se vedete che la bottiglia di Nero
d’Avola davanti a voi, con confezione tanto bellina, porta come provincia di
imbottigliamento Verona, Cuneo, Asti, ecc… riponetela delicatamente sullo
scaffale e scappate a gambe levate…. Sulle Igt un 15% del contenuto della
bottiglia può essere fatto con vino acquistato da fuori regione, non proprio un
segnale di grande cura e tracciabilità…
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