Il TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership), l’accordo di libero scambio che Europa e Stati Uniti stanno trattando da mesi, rappresenta più un opportunità per l’export italiano ed europeo, o il rischio della perdita di sovranità dei singoli stati nazionali e dell’Europa stessa?
Tra gli innumerevoli aspetti dell’accordo, che potrebbe verosimilmente vedere la luce agli inizi del 2016, uno dei più dibattuti è quello relativo all’ISDS (Investor-to-State Dispute Settlement), un meccanismo di arbitrato che andrebbe a creare una sorta di tribunale internazionale per decidere eventuali dispute tra investitori e governi nazionali, anche in conseguenza dell’introduzione di nuove norme.
Il punto è stato così controverso da essere bocciato nel gennaio del 2015 da una consultazione online promossa dalla Commissione Europea. Una consultazione cui hanno preso parte oltre 150 mila cittadini europei, di cui solo poche centinaia dall’Italia, che ha sottolineato i timori che un simile meccanismo, dopo l’allineamento delle normative tra Europa e Stati Uniti, impedirebbe ai governi europei di introdurre nuove regole, anche in materie particolarmente “sensibili” come la salute o la sicurezza alimentare. Timori rinnovati solo una settimana fa, quando migliaia di manifestanti sono scesi nelle principali piazze di tutta Europa contro l’accordo nel suo complesso. «La consultazione mostra chiaramente un diffuso scetticismo contro lo strumento ISDS», aveva commentato a caldo la commissaria UE al commercio Cecilia Malmström.
Il capitolo ISDS è stato tra i punti focali dell’ultima sessione di trattative sul negoziato, che si è tenuta a New York nei giorni scorsi. Sempre l’ISDS è ancora oggi al centro di una consistente parte del dibattito sul TTIP anche nel Parlamento Europeo. In questa sede, l’ago della bilancia potrebbe essere il gruppo dei Socialisti & Democratici (S&D), anch’esso (dopo la consultazione e le proteste) divenuto piuttosto polarizzato al suo interno tra sostenitori e oppositori. Tra i primi, la consistente delegazione Italiana, allineata alla posizione fortemente pro TTIP del governo Renzi. Tra i secondi, gran parte della delegazione tedesca e quella francese.
Potrebbero scomparire le banane?
L’anno scorso la Fao ha lanciato un allarme: la diffusione di un fungo potrebbe compromettere l’85% della produzione mondiale di banane. Ma che significa? Potrebbero scomparire le banane? Come è possibile?
È possibile perché il mercato mondiale è dominato da una sola varietà, la Cavendish, la banana dolce, morbida e dalla buccia gialla che tutti conosciamo. E perché i sistemi uniformi sono vulnerabili, incapaci di adattarsi agli imprevisti: a un cambiamento climatico, a un nuovo parassita, a un fungo…
Nel mondo esistono tante altre varietà di banane – lunghe e sottili, corte e tozze, gialle, rosse, arancioni, verdi, perfino blu – ma nessuno le conosce, perché il mercato globale ha bisogno di un prodotto standard, in enormi quantità e capace di sopportare lunghissimi viaggi, per essere disponibile ovunque, in qualsiasi stagione, a prezzi contenuti.
E l’agricoltura si adatta a queste esigenze: la coltivazione delle banane destinate all'esportazione si concentra così su un’unica tipologia, coltivata in America Latina (principalmente Ecuador) in immensi latifondi (anche di 5000 ettari), con dosi massicce di pesticidi, fungicidi e fertilizzanti chimici di sintesi (i fungicidi sono spruzzati anche 40-50 volte l’anno). Nei campi lavorano coltivatori molto poveri, spesso sottopagati e sottoposti a condizioni di lavoro durissime. I caschi di banane – raccolti ancora acerbi – sono caricati su navi frigorifero (bananiere) e, quando arrivano nei porti di destinazione, sono stoccati in celle di maturazione, dove la buccia (grazie all'uso di etilene) passa dal verde al tipico colore giallo acceso. In questo modo viene programmata artificialmente la maturazione e la distribuzione dei frutti.
Questo caso è emblematico di come il mercato globale abbia influenzato l’agricoltura e di come
l’agricoltura – trasformata in un’industria sempre più efficiente – abbia dimenticato il delicato equilibrio fra terra, piante, animali e uomini, e abbia relegato ai margini la biodiversità.
In settant’anni (ovvero nell’epoca dell’agricoltura industriale, nata negli anni Cinquanta), abbiamo perso in questo modo il 75% delle varietà vegetali che erano state domesticate e selezionate dai contadini nei precedenti diecimila anni.
Quando si estingue una varietà vegetale o una razza animale, è perduta per sempre. E con lei abbiamo perso genetiche importanti (che potrebbero essere utili in futuro per difendere animali e colture da attacchi imprevisti, ad esempio), ma anche un patrimonio culturale, economico e sociale inestimabile. Le razze e le varietà locali sono strettamente legate al territorio e alle comunità, stanno all’interno di particolari paesaggi rurali, sono il frutto di specifiche tecniche di allevamento, coltivazione, trasformazione: una razza bovina, ad esempio, significa cura dei pascoli di montagna, significa latte, burro e formaggi, significa artigianato e a volte perfino architettura (come quella degli antichi calecc, i ricoveri in pietra dove si produce il Bitto storico, in Valtellina). E significa economia: tutela del territorio, turismo, mercato locale…
Per questo Slow Food, da oltre 20 anni, si impegna per raccogliere e catalogare questo patrimonio (attraverso l’Arca del Gusto) e promuove i Presìdi, progetti in difesa delle varietà e delle razze locali, ma anche dei prodotti trasformati (formaggi, salumi, pani, dolci) nati dalla creatività dell’uomo per conservare le materie prime.
E per questo la risposta di Slow Food alla domanda di Expo “Come è possibile nutrire il pianeta?” parte proprio dalla biodiversità. Tutelare la biodiversità significa, infatti, rispettare le diversità dei territori, dei saperi, delle culture. Significa coltivare tante cose diverse, ma in piccola scala. Significa produrre di meno, ma dare più valore a ciò che si produce e non sprecare. Significa mangiare soprattutto cibo locale. Significa promuovere un sistema in equilibrio, durevole, sostenibile. Significa tutelare i contadini, i pescatori e i pastori che conoscono il fragile equilibrio della natura e operano in armonia con gli ecosistemi.
Senza la biodiversità non è possibile parlare di agricoltura sostenibile, di sovranità alimentare e, dunque, di accesso a un cibo buono, pulito e giusto per tutti.
Il calendario degli eventi Slow Food ad Expo 2015
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vi ricordiamo che siamo nel padiglione della BIODIVERSITA'.
Il punto è stato così controverso da essere bocciato nel gennaio del 2015 da una consultazione online promossa dalla Commissione Europea. Una consultazione cui hanno preso parte oltre 150 mila cittadini europei, di cui solo poche centinaia dall’Italia, che ha sottolineato i timori che un simile meccanismo, dopo l’allineamento delle normative tra Europa e Stati Uniti, impedirebbe ai governi europei di introdurre nuove regole, anche in materie particolarmente “sensibili” come la salute o la sicurezza alimentare. Timori rinnovati solo una settimana fa, quando migliaia di manifestanti sono scesi nelle principali piazze di tutta Europa contro l’accordo nel suo complesso. «La consultazione mostra chiaramente un diffuso scetticismo contro lo strumento ISDS», aveva commentato a caldo la commissaria UE al commercio Cecilia Malmström.
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