La Carta di Milano due mesi dopo
Mentre il programma di Expo, a due mesi
dalla sua apertura, si fa ogni giorno più articolato, è ora di tornare a
ragionare sugli aspetti più politici di questo evento.
La Carta di Milano, nata grazie ad un
sistema inclusivo di confronto sui tanti temi, con il coinvolgimento di
centinaia di attori della comunità scientifica, della società civile e
delle istituzioni, deve diventare un’agenda politica.
Viviamo in un’epoca che non ha fiducia
nelle parole ufficiali di documenti, trattati, dichiarazioni. Invece i
documenti ufficiali sono importanti, perché sono le basi su cui
costruire relazioni e perseguire obiettivi. Se non vengono presi sul
serio diventano foglie di fico, citazioni ad effetto la cui sostanza
nessuno verifica.
Oggi abbiamo una Carta di Milano aperta,
che può essere migliorata. È il titolo dell’Expo di Milano 2015, perché “nutrire
il pianeta” creando al tempo stesso “energia per la vita” significa
questo: trovare una via sostenibile alla produzione di cibo per tutti i
viventi.
Il 7 febbraio i lavori degli oltre 50
tavoli tematici aperti per costruire i contenuti della carta, si sono
aperti con un messaggio del Santo Padre che ha chiarito che occorre una
critica senza sconti ad un sistema orientato esclusivamente al profitto e
che su quell’altare sacrifica anche l’etica di una politica che
dovrebbe concentrarsi su un unico obiettivo, il bene comune.
Quindi, se vogliamo iniziare l’elenco di
quel che bisogna integrare nella Carta di Milano, al primo posto c’è
questo: manca una critica serena e ragionata al sistema del libero
mercato che, come efficacemente suggerito da Latouche, è un sistema di
libere volpi in liberi pollai.
Il 2015 non è solo l’anno
dell’Expo. E’ anche l’anno di questa enciclica, nella quale si legge
(198): “La politica e l’economia tendono a incolparsi reciprocamente per
quanto riguarda la povertà ed il degrado ambientale. Ma quello che ci
si attende è che riconoscano i propri errori e trovino forme di
interazione orientate al bene comune”.
Proseguendo l’elenco delle principali
tematiche assenti, arriviamo ai semi: non c’è cibo, non c’è agricoltura,
non c’è possibilità di sopravvivenza senza i semi. Il sistema economico
di cui sopra ha permesso che l’elemento di base della sopravvivenza del
pianeta diventasse oggetto di mercato e non ha trovato la strada, che
andava cercata prima nelle coscienze, poi nei cervelli, quindi nelle
leggi, per proteggere un ambito che da sempre l’agricoltura familiare ha
considerato non solo essenziale, ma anche inviolabile e sotto la tutela
di un’idea di condivisione che ha attraversato i millenni. Una Carta
che nasce da Expo non può non dire nulla sui semi, non può non porre il
tema delle sementi – la loro protezione, il loro ruolo ecologico, i
sistemi in base ai quali vengono prodotti, scambiati, distribuiti,
moltiplicati… – al centro di un discorso sul futuro del cibo.
E lo stesso respiro etico e normativo
andrebbe dedicato al tema dell’acqua, che certo (a differenza dei semi)
viene almeno citata più volte nel testo della Carta, ma di cui non si
dichiara mai in modo esplicito l’appartenenza al reame delle proprietà
collettive e dunque (ancora) la sua totale incompatibilità con il
sistema del libero mercato.
Molto pensiero si sta dedicando in questi
giorni alla Carta, molte organizzazioni, stanno presentando al Ministro
Martina e al Primo Ministro Renzi le loro osservazioni, e bisogna che
questa energia si concretizzi in azioni di miglioramento e revisione di
quel testo, oltre che in provvedimenti concreti che – almeno a livello
nazionale – possono far sì che le parole che diciamo definiscano le
azioni che faremo.
Per questo mi preme sollevare un’ulteriore questione: chi parla in
questa Carta? Perché i lavori promossi e coordinati dal Governo sfociano
in una carta che si apre con “Noi, cittadini e cittadine di questo
pianeta”? Non sarebbe più opportuno, efficace, promettente, che quella
carta fosse il messaggio del Governo che ospita Expo ai Governi del
resto del mondo? La Carta di Milano deve essere anche e soprattutto un
impegno dei Paesi, delle Istituzioni: perché i privati cittadini si
possono impegnare su tutto, e se tanti di loro non lo avessero fatto,
saremmo già andati a rotoli da un pezzo. Ma un impegno preso da un
Governo è un impegno sul quale i cittadini possono chiedere conto.
L’epoca dei buoni propositi e dei comportamenti virtuosi ma individuali
deve evolversi in un’epoca di impegni cogenti e di interventi
strutturali.
Bisogna allora diventare tutti vegetariani?
C’è una città che già da tempo adotta una politica vegetariana. Si
tratta della fiamminga Gent. La città ha elaborato una sua strategia sul
cibo, improntata sulla filiera corta e un ridotto impatto ambientale, e
promuove simbolicamente
il “giovedì vegetariano”: tutti i cittadini sono invitati a mangiare
vegetariano a casa, nelle mense, al ristorante almeno una volta alla
settimana. Dopo Gent, altre otto cittadine belghe, 20 aziende e numerose
scuole hanno partecipano all’iniziativa.
Fa tutta questa differenza rinunciare alla carne una volta alla settimana?
Assolutamente sì. Si contribuisce a conservare le esigue risorse
naturali, si riduce la perdita della biodiversità, la deforestazione e
si aumenta il diritto al cibo per tutti. Per fare un esempio: negli
allevamenti intensivi i manzi si nutrono di legumi come la soia,
coltivati perlopiù in appezzamenti deforestati dell’America Latina,
stipati in stalle in numeri talmente elevati che il letame da risorsa
per fertilizzare il terreno diventa un fattore inquinante, contaminato
per di più dagli antibiotici somministrati preventivamente agli animali.
Non solo: la coltivazione intensiva di cereali in monocolture si basa
sull’uso intensivo di fertilizzanti chimici e pesticidi, che rendono il
suolo sterile per le prossime generazioni, senza parlare dell’impatto
sulla moria delle api. Tutto questo per abbuffarci di filetti di manzo o
petti di pollo, riducendo a spreco i tagli meno nobili della carne.
Bisogna allora diventare tutti vegetariani? Non per forza. Ci sono
allevamenti che rispettano l’ambiente, nutrono il suolo, valorizzano la
biodiversità vegetale e animale, rispettano gli animali. Si pensi alla
vacca grigio alpina allevata da secoli in alta quota o al suino nero dei
Nebrodi allo stato brado in 50 mila ettari di faggi e querce. Certo,
stiamo parlando di allevamenti che da soli non sarebbero in grado di
permetterci di mangiare carne tutti i giorni della settimana. Per
l’appunto.
Racconti di vigna #2
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